La prima volta che ho preso un treno Trenitalia avevo 19 anni. In Sardegna i treni li avevo presi solo perché non avevo altre possibilità. Dice: ma i treni in Sardegna, che è Italia, saranno comunque Trenitalia, no? Eh. In Sardegna il treno lo prendi se non hai la macchina e nessun amico o familiare che abbia voglia o tempo di accompagnarti dove devi andare. Forse adesso la situazione è cambiata, comunque nel 2006 avevo la sensazione che le ultime modifiche strutturali serie risalissero a quel periodo dei treni sempre in orario.
Nel 2006 dovevo andare a fare il test per entrare all’Università. Il viaggio comprendeva il volo Alghero-Bologna e poi il treno sino a Padova. Ero con mamma. L’ultima volta che lei era salita su un treno in continente, quelli che erano arrabbiati perché i treni avevano cominciato ad arrivare in ritardo mettevano ancora le bombe nelle stazioni.
Comunque, saliamo. È lì, in quella poltroncina di un frecciabianca, che capisco davvero che cosa significa non essere su un’isola. Capisco che le persone che abitano a Bologna possono svegliarsi una mattina e senza troppe cose da organizzare e troppi soldi da spendere, andare in stazione e prendere un treno per Firenze e pranzare guardando Santa Maria Novella. Un altro giorno possono decidere di andare a Milano a farsi un giro in piazza Duomo e la sera stessa tornare a dormire nel loro letto. Possono decidere di andare a Venezia una mattina, così, senza dover prenotare un aereo, una nave, un albergo. Non c’è una distesa di mare in mezzo che li separa dalla facilità del movimento, dall’essere tutti collegati. Poi capisco che anche io a breve farò parte di questa grande famiglia di persone che si svegliano la mattina e girano per le città italiane senza un problema al mondo e capisco che era il momento di partire, di lasciare alle spalle l’isola.
Quando Luca è venuto per la prima volta in Sardegna mi ha detto: certo che qui si capisce proprio quando finisce un paese e ne inizia un altro. Che strano commento, ho pensato. Poi ho capito. Ho capito quando tutte le mattine mi sono trovata ad abitare e poi attraversare quelle distese di posti che finiscono con -ate per arrivare a Milano, tutti attaccati che non si capisce dove ad esempio finisce Bollate e inizia Novate.
In Sardegna siamo in pochi, siamo sempre meno e proprio io non dovrei parlare perché me ne sono andata diciotto anni fa e non sono più tornata. Non so neanche se potrei usare il siamo, dovrei invece dire in Sardegna sono in pochi. Mi è venuto in mente che a settembre 2026 saranno di più gli anni passati fuori dall’isola che quelli passati dentro.
Da quando ho deciso di attraversare quel mare ho sperimentato che il termine casa era improvvisamente diventato impossibile da afferrare. È facile dire “casa sono le persone che ami”. La casa è fisica. Ad esempio, casa è entrare in una stanza che era tua e vedere Ascolta il mio cuore e pensare a tutte le volte che lo hai letto e sentire la necessità di rileggerlo ancora su quel letto e la voglia di portarlo via. Portarti via un pezzo di casa.
Mi ricordo quando ho letto: Bianca Pitzorno è nata a Sassari. Come me! Pensai. E nel suo bellissimo libro che avevo finito di leggere in un soffio, parlava anche della Sardegna. Mi sentivo orgogliosa, pensavo che allora io ero proprio come Prisca Puntoni, che io potevo diventare come lei, come Bianca. Perché sapevamo cosa significa l’isola e che anche se vivi a Milano da tanti anni non riesci a smettere di scriverne.
Casa è saperti muovere al buio in luoghi che non abiti più. Eppure non tornerei ed è qui che la magia si interrompe. È casa ma non è più casa mia.
Lo so che è pieno di sardi in giro per il mondo che tornerebbero se solo potessero. Io pensavo che con l’età sarebbe venuta voglia anche a me. Invece Luca puntualmente mi chiede: ma tu ci torneresti? e io puntualmente rispondo di no.
C’era un po’ di casa in tutte le case che ho abitato, sono molte. Ma non c’è un posto che è casa mia e che racchiude il senso totale di questa parola. Per alcuni questa è libertà, io ancora non lo so che cosa è per me. So che sono stanca di cambiare casa, so che ne vorrei una nostra dove Amedeo si potrà muovere al buio anche quando non ci abiterà più da tanti anni. Voglio provare a cercare quella casa e farla simile alla casa dove sono cresciuta.
Il primo libro che si vedrà sulla nostra libreria sarà Ascolta il mio cuore.
I libri di agosto 🦄
Ho letto meno del solito perché sono stata meno da sola, alle volte è stato molto divertente e alle volte mi ritrovavo a sognare quella stanza tutta per me che viene tolta ai genitori quando le scuole, giustamente, chiudono.
A inizio mese ho letto Aggiustare l’universo di Raffaella Romagnolo, arrivato nella cinquina dello Strega quest’anno. Ottobre 1945, il primo anno scolastico dopo la fine della guerra. La maestra Gilla cerca di non pensare a quello che la guerra le ha tolto, ma solo alle 24 bambine che ha davanti. Tra loro c’è anche una bambina che viene dall’orfanatrofio del paese e che non parla, si chiama Francesca. Scopriremo poi che Francesca in realtà si chiama Ester e che aspetta i suoi genitori, che le hanno promesso che torneranno a prenderla. L’universo si è rotto per entrambe, ma la maestra Gilla proverà ad aggiustarlo. Devo dire che mi è piaciuto davvero molto, di più ad esempio dell’età fragile (ormai avete capito che non sono d’accordo con il libro vincitore e avrete anche capito che sono una che se la lega al dito).
Poi ho letto Vento da est di Stefania Bertola. Dovete sapere che Bertola è una delle mie autrici preferite perché due suoi romanzi mi hanno fatta ridere molto (Romanzo rosa e Le cure della casa), quindi quando in libreria ho visto il suo nuovo romanzo l’ho acquistato senza farmi troppe domande. Purtroppo Vento da est mi ha un po’ delusa. La protagonista è Brigida, laureata in filosofia, che è stabilmente disoccupata e va avanti con lavoretti saltuari. Le chiedono di badare ad una casa e il compenso che le offrono è decisamente alto, quindi non le sembra vero. Da qui nascono varie situazioni, guai da risolvere e amori. La storia però mi sembra lasciata a metà, non ha la brillantezza dei suoi romanzi più riusciti.
Ho letto poi Le perfezioni di Vincenzo Latronico perché è il libro di settembre del mio amato club del libro. Anna e Tom sono due freelance che potrebbero provenire da uno qualsiasi dei paesi del sud dell’Europa e che si sono trasferiti a Berlino. Sono due persone della mia generazione, della generazione dell’autore. Questo libro racconta la loro infelicità dietro una vita perfetta sui social, racconta la polvere che si posa ogni volta che l’obiettivo non guarda. Un’infelicità sottile e strisciante, anche se l’autore non è mai davvero giudicante. Tom e Anna sono personaggi che sono indeterminati, proprio perché diventano strumento per riconoscerci.
Infine ho letto un saggio che volevo leggere da anni ma che mi ha sempre spaventata per la mole di pagine e informazioni, Sapiens di Yuval Noah Harari. È vero, si legge rapidamente, i concetti sono chiari e appassionanti come se fosse un romanzo.
Ho riletto Ascolta il mio cuore e anche Diana, Cupido e il Commendatore di Bianca Pitzorno e ho ritrovato il filo che avevo lasciato lì a 12 anni, quando volevo essere Prisca Puntoni, con i capelli corti, la mano sporca di inchiostro e una storia sempre in mente.
I capelli intanto li ho tagliati.
Grazie per avermi letta, vi abbraccio!
Francesca
Ho cambiato casa quindici, venti volte, ho perso il conto. Ho cambiato casa tante volte anche quando ero piccola. Ho anche cambiato città ma mi sono spostata massimo di 80 km, non ho mai avuto amici e famigliari impossibili da raggiungere ma solo a distanza di sicurezza. Il fatto di non essermi mai sentita a casa mi ha fatto impazzire per tutta la mia infanzia, poi un giorno - avevo circa 27 anni e tre bimbe piccole - mi sono comprata una casa in collina. Niente di pretenzioso, un grande terrazzo ma niente giardino privato; grandina e con vista, ma molto, troppo umida. Dopo otto anni ho capito che avevamo bisogno di altro: di scuole migliori, di un lavoro migliore, di una piscina e un cinema vicino a casa, di un medico non a venti km di distanza. Ho affittato un inquilino, ma ci penso da allora, da otto anni. L'inquilino vorrebbe comprarla e a me converrebbe venderla, ma non sono in grado di rinunciare all'unico posto che nella vita io abbia mai chiamato casa.
Come ti capisco... anch'io non ho più un posto che posso chiamare casa. Ho vissuto più anni in Italia che in Argentina (28 contro 9) e se mi chiedono se tornerei a Buenos Aires, dico purtroppo di no. Non perché non voglio, ma perché non si può, vista l'attuale situazione economica e sociale. Ma non mi sono più sentita a casa in nessun posto, né a Bologna, né a Ravenna, né a Pesaro, né a Madrid (forse a Madrid sì, assomiglia molto a Buenos Aires nell'architettura) né a Barcellona. Casa mia è la mia infanzia, e me la porto nel cuore. Così viene con me ovunque. Questa al momento è l'unica soluzione che ho trovato :)