Ci sono cose che mi mancano di quello che facevo prima, della vita da partita iva, dell’avere un mio progetto di cui io sola ero responsabile. Una cosa però non mi manca per niente, essere un brand. Il personal brand per me è stato un progetto per l’infelicità. E lo so che ci sono persone competenti che hanno scritto libri, creato corsi, fatto podcast e insomma si sono costruite una carriera con il loro personal brand e spiegandolo ad altri. Vi conosco probabilmente, mi sono bevuta tutto quello che avete scritto.
La premessa è necessaria. Questo è il mio punto di vista basato sulla mia esperienza e non vuole in nessun modo essere la Verità, solo la mia verità che potrebbe essere diversa dalla vostra. E va bene così, non c’è bisogno di essere sempre in guerra, direi che gli eventi del mondo ci pensano per noi.
All’inizio è stato bello. Studiarlo e poi lavorarci su, lavorare sul logo, sui colori. Pensare al piano marketing, immaginare il podcast che poi sono diventati due.
Con Instagram è sempre stato difficile. Ci è voluto molto tempo e molta sincerità dopo molte bugie per dirmi che era una dipendenza malata. Postare cose, elemosinare un like. Far dipendere non solo il mio lavoro ma me stessa dalla reazione di altri di cui non vedrò mai la faccia, non ascolterò mai la voce. Sconosciuti che potevano cambiarmi l’umore semplicemente non essendoci. Mi facevo pena, perché mi dicevo io non sono così debole eppure lo ero, debolissima. Mai nulla mi ha resa più debole del lavorare al mio personal brand, e lo vedo solo ora che ne sono uscita da 4 mesi.
Le persone che mi hanno aiutata a crearlo sono professioniste che ho amato, loro davvero non c’entrano. Ci tengo a scriverlo perché magari mi leggono.
Gli ultimi dieci-dodici anni sono stati una grandiosa allucinazione collettiva. Mi pare che stiamo cominciando ad accorgercene. È un problema quando le allucinazioni sono collettive, perché accanto a te hai solo specchi che rimandano la tua personale allucinazione, che la fanno sembrare normale e quindi tu, senza saperlo, peggiori.
Che cosa è personale? Dice: tranquilla, lo decidi tu. Scegli tu il confine che servirà a proteggerti. Davvero? davvero lo scegliamo noi questo confine o è un confine mobile, che si sposta a seconda del fatturato mensile, a seconda della nostra autostima, della nostra paura di fallire, di quelli che ce l’hanno fatta e tu no, delle cose che continui a sbagliare. Dice: i fallimenti ti insegnano. Ok, ma a una certa serve che funzioni. Rispettare quel confine è stato difficile per me. Non mi ha mai protetta, non ne sono stata capace. Non sono mai stata così forte. Per far funzionare il mio personal brand dovevo essere una falsa versione di me stessa, il più vera possibile.
Chiunque mi ha ripetuto le persone comprano te, non quello che vendi. Tra un gruppo di gente che fa il tuo stesso lavoro le persone comprano le persone. Dovevo fare in modo di essere quella persona da scegliere: interessante, bella, divertente e certo, brava. E questo concetto può sembrare innocuo ma mi ha portata in un posto buio, doveva darmi potere e invece me lo ha tolto, ogni giorno un po’.
Da quando non sono più un brand ma solo Francesca mi sento meglio. Ho la sensazione che sia stato un passaggio obbligato per ritrovarmi, per riprendermi. Instagram è diventato un posto dove conservo i ricordi, dove parlo con alcune e alcuni di voi, dove ci sono se mi va. Una cosa normale, il Facebook dei millennials.
Una piccola mia verità però ve la scrivo, qui alla fine: il fatto che i professionisti condividano lo spazio digitale con influencer e content creator è pericoloso. Quello che è pericoloso è che le strategie di comunicazione, alla fine, siano le stesse. Significa che quando parlavo del mio lavoro non mi cagava nessuno e quando parlavo dei cazzi miei, soprattutto se riguardavano Amedeo, avevo il triplo delle reazioni. È normale, è umano. Cosa succede allora? Che provi ad utilizzare i cazzi tuoi per vendere e poi però allo specchio alla mattina non ti puoi guardare più, ti sputi in faccia. Almeno, io lo facevo.
Mi piacerebbe tornare in un mondo dove ci sia pubblicità pura e semplice, che so che mi stai vendendo qualcosa e decido io se mi interessa. Posso pure piangere guardando lo spot dell’Ikea ma lo so da subito che quella è una pubblicità, non ci sono vie di mezzo, confini labili.
E lo so che c’è qualcuna che legge e pensa che sto sbagliando, che il problema è solo mio perché alla fine sono io che non ci sono riuscita e quello che penso io non vale per gli altri. È vero. Non vi sto giudicando, a malapena riesco a non giudicare troppo duramente me stessa. Questa cosa volevo scriverla da un po’, ci avevo già provato ma era uscita troppo arrabbiata. Spero che oggi mi sia uscita meglio, perché sono meno arrabbiata. Pensierini è anche la mia terapia e in terapia non si dicono bugie.
Vi abbraccio!
Francesca
è tutta la vita che lo dico: personal branding è un ossimoro, siamo persone e non brand. E c’è una differenza abissale, che abbiamo fatto finta di non vedere, negli ultimi 15 anni almeno. Ho sempre pensato al personal branding come il braccio armato del capitalismo, il modo in cui - con i cuoricini, e il mettici la faccia, e racconta di te - ha chiuso il suo cerchio, con noi nel mezzo, stritolandoci. Lo strumento con cui è arrivato a succhiare, rosicchiare, spolpare avidamente l’umano: la creatività, le emozioni, la vita privata di tutti. Ne parlo spesso con le amiche e sempre con tristezza e problematicità, perché è un gioco a cui, negli ultimi 15 anni, ho giocato anche io. Ho aperto Instagram appena è nato, nel 2010. Su Ig ho conosciuto alcune delle mie migliori amiche e persino il padre di mio figlio. Senza Instagram forse non farei nemmeno il lavoro che faccio o meglio, probabilmente avrei lasciato il giornalismo già da un po', visto che mi pagano più per i Reel pubblicitari che per i pezzi ormai, ma è un discorso lungo da fare qui... Le cose sono cambiate e non so nemmeno se è ancora possibile abitare gli spazi digitali con la stessa gioia. Si sono rivelati per quello che sono e che io per prima non avevo mai visto: non un parco giochi senza regole in cui correre in libertà ma un campo minato con buchette insidiose. In cui rischia di incagliarsi la tua vita. E' un gioco con i glitter posticci, il premio? più FAI e più SEI. E io invece credo proprio che come umanità abbiamo bisogno del contrario: di tornare a sentire di essere, senza dover fare un bel niente. Un abbraccio e grazie, enormemente, per questa riflessione.
Ciao Vincenzo, condivido assolutamente. La carriera da content creator io non la consiglierei a nessuno. Grazie a te per questo commento che aggiunge un punto di vista alla discussione